Euripide scrive e mette in scena una trama che non ha soluzione, uno scontro tra
irragioni che conduce all’epilogo estremo. Irrisolto e Irrisolvibile sono i poli del
tragico: e questo è noto. Nella tragedia spesso non ci si muove in una dialettica tra
virtuosi e malvagi ma, a tratti, lo spettatore è condotto a stare con ogni fazione, con
ogni ragione, con ogni irragione, pur nel distacco dall’esodo, spesso atroce.
Medea che, straniera, cerca vendetta e giustizia, mischiando il sapore dell’una nel
colore dell’altra, e (s)cambiando la carne dei figli per carne dell’empio Giasone, al
punto di negarne anche il corpo per le esequie, descrive in modo magistrale ciò
che il teatro greco ha consegnato alla contemporaneità.
Più del mito che argomenta, e descrive, la tragedia si dipana nel “canto del capro
espiatorio” che, pur non indulgendo nella visione di orrido e nefasto (Aristotele),
incute catarsisin chi è condotto a stare “dove non è concesso star fermi né
muovere” per dirla con Sofocle.
Ecco perché il contemporaneo ha necessità della “carne” del tragico greco, per
derivare in essa nuove arterie e nuove ricerche. Dall’assunto che la tragedia mette
in scena l’irrisolvibile, siamo stati tentati a tradurre questa insidia sullo sfondo di
una questio irrisolta per antonomasia: la questione meridionale. Che chi fa ricerca
teatrale nelle viscere della provincia siciliana sente come tema estremo e
dominante della propria identità di teatrante